Il film di David O. Russell, sembra sintetizzare attraverso le immagini la nota frase: nessuno visto da vicino è normale.
Pat, il protagonista, ha una diagnosi di disturbo bipolare, appena uscito dall’ospedale psichiatrico incontra Tiffany, giovane vedova tormentata, con un trascorso di sesso compulsivo.
Pat e Tiffany con i loro problemi psicologici sembrano essere gli unici ad avere avuto lo stigma di un disturbo mentale, anche se l’umanità che gravita nel loro mondo, a tutti gli effetti, è destinata ad allungare la lista. Il film parte dall’assunto che se tutti sono un po’ strani, visti da vicino, la normalità contrapposta alla follia, di per sé non ha senso, ma forse l’una contiene l’altra e viceversa.
La madre di Pat è una donna remissiva e accondiscendente, minimizza i problemi, abbassa il termometro emozionale familiare dispensando sorrisi e preparando stuzzichini di granchio caldi. Il padre, spettatore compulsivo di football, superstizioso fino all’eccesso, tenta di dissimulare la sofferenza derivante dal senso di colpa nei confronti del figlio, mostrandogli vicinanza nell’unico modo che conosce: chiedendo a Pat di vedere insieme la partita di football, massima espressione, per lui, dell’ intimità tra padre e figlio.
Il fratello di Pat, rappresenta l’altra faccia della nevrosi: laddove Pat la manifesta, il fratello appare come rigida e meccanica incarnazione dei sogni paterni di successo e famiglia, ma disconnesso dalle emozioni e dalla relazione.
E poi Tiffany, icona di una femminilità morbida e atletica, con un passato di dipendenza sessuale come anestetico per la sofferenza della morte prematura del marito, in cui serpeggia una rabbia inespressa, che ogni tanto erompe con forza e grinta.
Il panorama umano che prende forma sullo schermo, trasuda di piccole e grandi manie. L’attenzione del regista è nel sondare, senza troppo immergersi, piuttosto facendole venire a galla da sguardi, parole, atteggiamenti, le stranezze, le idiosincrasie, le piccole assurdità e i paradossi di una vita ritenuta normale.
Il protagonista mostrando senza filtri la sua fragilità, la sua difficoltà a mantenere l’autodisciplina, le sue ossessioni e la sua ostinazione, non scivola nell’ingenuità dello stereotipo “folle è bello”, grazie a una autoconsapevolezza che non fa sconti, che lo rende a volte ruvido, rabbioso, amaro.
Nel finale il ballo ribelle, anticonformista e un po’ dis-regolato, rispetto alla perfezione patinata e finta degli altri protagonisti, diventa simbolo di un’esistenza che danza in continuo bilico tra sofferenza e gioia, fragilità e sicurezzza, con momenti armonici, salti e guizzi e rovesciamenti, immagine liberatoria, ma non consolatoria, di un destino che non è dato una volta per tutte.
Claudia Garano