La capitale è già fallita, meglio un commissario

marzo 2, 2014
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Il fallimento di Roma non è solo economico, ma politico e morale. Serve un commissario che risponda solo a palazzo Chigi, e sia disposto all’impopolarità necessaria per avviare le riforme

Come tutti sanno (ma non sempre dicono) il Comune di Roma è già fallito da tempo. Era già fallito nel 2008, quando Gianni Alemanno fu eletto sindaco e il governo di centrodestra, con l’avallo del centrosinistra, s’inventò una specie di bad company per accollarsi i 20 miliardi di euro di debito accumulati fino ad allora. Dal 2008 lo Stato versa ogni anno 300 milioni, mentre il Comune ne accantona altri 200.

In questi anni, tuttavia, la spesa pubblica è ulteriormente cresciuta e (con Alemanno) c’è stata un’impennata di assunzioni; né Marino sembra aver aggredito in questi mesi il problema, preferendo invocare l’intervento risanatore del governo. Il risultato è che oggi il Comune ha un disavanzo strutturale di 1,2 miliardi, nonostante i suoi cittadini paghino in tasse locali più del doppio della media italiana (1040 euro all’anno contro 440).

Fra partecipazioni dirette e indirette, oggi il Comune di Roma controlla più di 160 società (compreso, caso unico in Italia, una compagnia assicurativa, la Adir), per un totale di circa 37.000 dipendenti; a questi si aggiungono i circa 25.000 dipendenti diretti dell’amministrazione capitolina (per dire: la Fiat ha in tutta Italia 26.800 dipendenti). Il grosso delle perdite si concentra nelle tre società più grandi (Ama, Atac e Acea), che spendono soltanto in personale una cifra superiore all’intero disavanzo strutturale del Comune e accumulano debiti e disservizi.

L’Atac, per esempio: con un numero di stipendi paragonabile a quello dell’Alitalia ha accumulato in dieci anni perdite per 1,6 miliardi. L’Ama, la municipalizzata dei rifiuti, è indebitata con le banche per 670 milioni (pari ai ricavi di un anno). L’Acea ha 2,5 miliardi di debiti, ma il suo amministratore delegato guadagna 1,3 milioni l’anno, più del quadruplo di Angela Merkel.

In compenso, i 43 mila alloggi di proprietà comunale rendono mediamente 52 euro al mese. Ogni giorno 1400 dipendenti dell’Atac su un totale di circa 12.000 sono assenti giustificati. Le farmacie comunali (362 dipendenti) perdono decine di milioni all’anno. Il fallimento di Roma non è soltanto economico e finanziario: è politico, è morale, e investe un’intera classe dirigente senza eccezione alcuna.

Buttare altri soldi nella fornace inefficiente e parassitaria della spesa pubblica capitolina non significa salvare Roma: significa al contrario condannarla alla dannazione perpetua. «Se il mio compito – ha tuonato in queste ore il sindaco Marino – dev’essere licenziare 4000 dipendenti comunali, vendere Acea ai privati, liberalizzare trasporti e rifiuti, e non fare nessuna manutenzione in una città che ne ha un disperato bisogno, allora dovrà occuparsene un commissario liquidatore, non io».

Marino ha ragione: non può essere lui l’uomo del risanamento, Roma ha bisogno di un commissario. Ha bisogno di una persona scelta dal governo centrale, e che risponda soltanto a palazzo Chigi, dotata di pieni poteri e disposta all’impopolarità necessaria per avviare le riforme strutturali (privatizzazioni, liberalizzazioni, rendimento del personale) che consentiranno alla città di rinascere e al prossimo sindaco, chiunque esso sia, di avviare un’amministrazione virtuosa.

Il default controllato e il commissariamento della capitale avrebbero anche un significato più generale, per le dimensioni dell’impresa e per il segnale che il governo appena entrato in carica intende dare al paese e al mondo. La gestione responsabile della cosa pubblica e dei soldi dei contribuenti è il mattone su cui ricostruire la credibilità della classe dirigente e la fiducia dei cittadini. Prima ce ne rendiamo conto, e meglio è per tutti.

@frondolino

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