Il bene comune ingrassa il Comune Il curioso caso di “Roma Capitale”

dicembre 20, 2013
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Liberalizzazioni al palo, la privatizzazioni-fantasma, resistenze politiche e corporative a qualunque ipotesi di smantellamento del reticolo di società municipalizzate che garantisce alle amministrazioni e ai partiti una presa d’acciaio nella proprietà e nella gestione dei servizi locali. Che si tratti di acqua, trasporti odi servizi funerari, poco cambia: davanti ai “beni comuni”, qualità ed efficienza passano in secondo piano. Anche a costo del ridicolo. Basti pensare al Comune emiliano che alcuni mesi fa ha chiesto ai cittadini di pagare l’Imu sulla tomba dei propri defunti: il cimitero è pieno di erbacce, ma la tassa sulla tomba è un atto dovuto. E che dire di Genova, dove la sola ipotesi di privatizzare la società di trasporto locale è stata bloccata a colpi di scioperi e manifestazioni. Insomma, malgrado gli impegni sottoscritti con i contribuenti – costretti ogni anno a ripianare deficit abissali – e con l’Europa, il tema privatizzazioni, economicità ed efficienza continua ad essere poco più di uno slogan dalla Sicilia all’Alto Adige. Se poi ci si ferma a Roma, il quadro risulta quasi grottesco. Chi governa, chi amministra Roma, anzi “Roma Capitale”, come orgogliosamente si è autodefinisce l’amministrazione comunale? Certo, c’è un sindaco, Ignazio Marino: ma è un sindaco aspramente contestato a viso aperto dalla sua stessa maggioranza. Certo, c’è una Giunta di governo: ma la stessa maggioranza non si sente rappresentata e reclama un “rimpasto”. Certo, ci sono gli assessori: ma non passa giorno senza che un paio d’essi si esercitino nei colpi bassi, paralizzando opere pubbliche da loro stessi definite però «le più importanti del Paese». Basti pensare al teatrino messo in piedi sulla terza metropolitana di Roma: i fondi, su cui c’era già stato un accordo tra il Campidoglio e le imprese del Consorzio Metro C, hanno rischiato di essere cancellati da un emendamento (fortunatamente bocciato martedì) al Dl Enti locali a firma della relatrice Pd del provvedimento in commissione Bilancio: ebbene, la misura chiudi-cantieri era stata ispirata proprio da un assessore del Comune di Roma, che appena tre mesi aveva firmato un contratto da quasi 300 milioni con le imprese del Consorzio. Siamo a Roma, anzi a “Roma Capitale”, dove il Bilancio 2013 è stato chiuso soltanto grazie a un poderoso aiuto del governo. E dove si è già disinvoltamente annunciato che altri aiuti saranno richiesti per il bilancio 2014. Non a caso, proprio ieri il Sindaco di Roma si è scagliato contro la legge di Stabilità, che a suo avviso «continua a penalizzare i Comuni». «La riduzione dei trasferimenti da 1,5 miliardi che si profila – ha dichiarato Marino – si aggiunge agli 8 miliardi persi negli ultimi anni». Bene. Ma allora perché, se questa è la situazione, il Sindaco di Roma non cerca di fare cassa conte privatizzazioni invece di continuare a ripianare deficit con i soldi del contribuente? Ma se qualche parlamentare che ben conosce Roma e il suo sottobosco si azzarda a chiedere al Sindaco di sanare il baratro dei conti delle ex municipalizzate come l’Acea oppure di venderne quote e licenziare dipendenti di aziende in crisi – per esempio – coloro che erano stati assunti (come sostiene lo stesso Sindaco Marino) con concorsi truccati…. Apriti cielo! Questo incauto parlamentare viene subito accusato di nefandezze e soprattutto di voler liquidare un “bene comune”… Prova ne sia la gioia del Sindaco Marino sulla bocciatura dell’emendamento (presentato dalla Senatrice Lanzillotta) che avrebbe costretto il Comune a cedere ai privati il controllo dell’Acea, la società dei servizi idrici: «Riteniamo che l’acqua che è bene pubblico -ha detto il neo-Sindaco – materia di referendum, debba essere gestita con una salda maggioranza nelle mani del pubblico». Per Marino, ovviamente, l’acqua è un bene comune e come tale va protetto dai privati Già, il “bene comune”: un concetto e un principio nobile che però a Roma ha significati particolari: gli occupanti del Teatro Valle (col silenzio-assenso del Sindaco) ne declinano il principio non pagando neanche la SIAE, e il Comune – pardon, “Roma Capitale” – chiedendo soldi ai contribuenti. Il principio è chiaro: il bene è comune se ingrassa il Comune.

Alessandro Plateroti per Il Sole 24 Ore

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