La marcia continua

marzo 12, 2015
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BARACK OBAMA (da ytali)
L’intervento del presidente degli Stati Uniti sabato 7 marzo alla fine del ponte Edmund Pettus di Selma, in Alabama, dove il 7 marzo 1965 la polizia e un gruppo di cittadini volontari assaltarono seicento persone che stavano manifestando per i diritti degli africano-americani. Ecco il testo con note in italiano.

È un raro onore nella vita poter seguire uno dei tuoi eroi. E John Lewis è uno dei miei eroi. Mi viene da immaginarlo, adesso, quando – allora era molto giovane – John Lewis si svegliò quella mattina di cinquant’anni fa e si diresse verso Brown Chapel. L’eroismo non era nella sua mente. Una giornata così non era sulla sua mente. Un brulicare di giovani con sacchi a pelo e zaini. Veterani del movimento che addestravano le nuove leve nelle tattiche della non violenza; il modo giusto per proteggersi quando si è attaccati. Un medico descriveva ciò che i lacrimogenifanno al corpo, mentre i manifestanti si appuntavano alla meglio istruzioni su come contattare i loro cari. L’aria era densa di dubbio, di apprensione e di paura. Trovavano conforto nel verso finale del canto finale che cantavano: “Non importa quale potrà essere la prova, Dio si prenderà cura di te; appoggia la tua stanchezza sul Suo petto, Dio si prenderà cura di te”. Poi, una mela nello zaino, e uno spazzolino da denti, un libro di diritto – tutto ciò che serve per una notte dietro le sbarre – John Lewis li condusse fuori dalla chiesa in una missione per cambiare l’America.

Presidente Bush e signora Bush, governatore Bentley, membri del Congresso, sindaco Evans, reverendo Strong, amici e concittadini americani: Ci sono luoghi, e momenti in America, in cui si è deciso il destino di questa nazione. Molti sono siti di guerra – Concord e Lexington, Appomattox e Gettysburg. Altri sono siti che simboleggiano l’audacia del carattere dell’America – Independence Hall e Seneca Falls, Kitty Hawk e Cape Canaveral.
Selma è uno di questi luoghi.

In un pomeriggio di cinquant’anni fa, quanto della nostra storia turbolenta – la macchia della schiavitù e l’angoscia della guerra civile; il giogo della segregazione e la tirannia di Jim Crow; la morte di quattro bambine a Birmingham, e il sogno di un predicatore battista – si ritrovò su questo ponte.
Non fu uno scontro di eserciti, ma uno scontro di volontà; un confronto per determinare il significato dell’America.

E a causa di uomini e donne come John Lewis, Joseph Lowery, Hosea Williams, Amelia Boynton, Diane Nash, Ralph Abernathy, CT Vivian, Andrew Young, Fred Shuttlesworth, Martin Luther King, e tanti altri ancora, l’idea di un’America, giusta, un’America inclusiva, un’America generosa – quell’idea che alla fine ha trionfato.
Come è vero in tutto il panorama della storia americana, non possiamo esaminare questo momento isolato dagli altri. La marcia su Selma fu parte di una campagna più ampia che ha attraversato generazioni; i leader di quel giorno sono parte di una lunga serie di eroi.

Ci riuniamo qui per celebrarli. Ci riuniamo qui per onorare il coraggio di americani comuni disposti a sopportare manganellate e staffilate; gas lacrimogeni e cariche a cavallo; uomini e donne che, nonostante il fiotto di sangue e l’osso scheggiato rimasero fedeli alla loro stella polare continuando la marcia verso la giustizia.
Assunsero come insegna la Scrittura: “Siate lieti nella speranza, forti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera” E nei giorni a venire, tornarono, e tornarono ancora. Quando la tromba suonava perché altri ancora si unissero a loro, il popolo arrivò – bianchi e neri, giovani e anziani, cristiani ed ebrei – sventolando la bandiera americana e cantando gli stessi inni pieni di fede e di speranza. Un giornalista bianco, Bill Plante, che allora faceva reportage sulle marce e che è qui con noi oggi, scherzava dicendo che via via che cresceva il numero dei bianchi, s’abbassava la qualità del canto. A quelli che marciavano, però, quelle vecchie canzoni gospel non dovevano essere mai risuonate così dolci.

Con il tempo, il loro coro avrebbe raggiunto il presidente Johnson . E avrebbe inviato loro una protezione, riecheggiando il loro appello alla nazione e al mondo perché ascoltassero: “We shall overcome“.

Che fede enorme avevano questi uomini e queste donne. Fede in Dio – ma anche fede nell’America.
Gli americani che attraversarono questo ponte non erano fisicamente imponenti. Ma diedero coraggio a milioni di persone. Non avevano alcun mandato elettivo. Ma guidarono una nazione. Marciavano come americani che avevano sopportato centinaia di anni di brutale violenza, e innumerevoli umiliazioni quotidiane – ma non cercavano un trattamento speciale, solo la parità di trattamento promessa loro quasi un secolo prima.
Quello che fecero qui si riverbererà nei secoli. Non perché il cambiamento che ottennero fosse preordinato; non perché la loro vittoria fosse completa; ma perché dimostrarono che il cambiamento non violento è possibile; che l’amore e la speranza possono vincere sull’odio.

Mentre commemoriamo quanto realizzarono allora, non possiamo dimenticare che, al tempo delle marce, molti al potere le condannavano più che lodarle. Allora, erano chiamati comunisti, meticci, agitatori venuti da fuori, degenerati sessuali e morali, e peggio ancora – tutto tranne il nome che avevano avuto dai loro genitori La loro fede è stata messa in discussione. Le loro vite minacciate. Il loro patriottismo contestato.
Eppure, cosa poteva esserci di più americano di quello che accadde in questo luogo?

Cosa potrebbe più profondamente rivendicare l’idea dell’America che persone semplici e umili – gente comune, gli oppressi, i sognatori non di alto rango, nati non per diventar ricchi o privilegiati, non di una sola tradizione religiosa, ma di tante – che convergono per dare forma al corso del loro paese?
Quale più grande espressione di fede nell’esperimento americano di questa; quale più grande forma di patriottismo; più della convinzione che l’America non è ancora finita, che siamo abbastanza forti da essere autocritici, che ogni generazione successiva possa guardare alle nostre imperfezioni e decidere che è in nostro potere rifare questa nazione perché s’allinei sempre più vicino ai nostri ideali più alti?
Ecco perché Selma non è un’estraneità rispetto all’esperienza americana. Ecco perché non è un museo o un monumento statico da contemplare da lontano. È invece la manifestazione di un credo scritto nei nostri documenti fondanti:

“Noi, il popolo degli Stati Uniti, al fine di perfezionare la nostra Unione…,
“Noi riteniamo queste verità autoevidenti, che tutti gli uomini sono stati creati uguali”

Non sono solo parole. Sono una cosa viva, un invito all’azione, un percorso di cittadinanza e un’insistenza nella capacità di uomini e donne liberi di plasmare il nostro proprio destino. Per i padri fondatori come Franklin e Jefferson, per leader come Lincoln e FDR, il successo del nostro esperimento di autogoverno riposava nel coinvolgimento di tutti i cittadini in questo lavoro. Questo è ciò che celebriamo qui a Selma. È tutto questo, quel movimento, un passo nel nostro lungo cammino verso la libertà.
L’istinto americano che portò questi giovani uomini e donne a prendere in mano la torcia e ad attraversare questo ponte è lo stesso istinto che spingeva i patrioti a scegliere la rivoluzione non la tirannia. È lo stesso istinto che ha attirato gli immigrati che hanno attraversato gli oceani e il Rio Grande; lo stesso istinto che portò le donne a conquistare il voto e i lavoratori a organizzarsi contro un ingiusto status quo; lo stesso istinto che ci portò a piantare una bandiera a Iwo Jima e sulla superficie della Luna.

È l’idea tenuta da generazioni di cittadini che hanno creduto che l’America sia un costante lavoro in progressione; che hanno creduto che amare questo paese richieda ben più che cantarne le lodi o evitare scomode verità. Richiede la rottura, talvolta, la disponibilità a battersi ad alta voce per ciò che è giusto e scuotere lo status quo.

Questo è ciò che ci rende unici, e cementa la nostra reputazione di faro di opportunità. I giovani che stanno dietro la cortina di ferro avrebbero visto Selma e, alla fine abbattuto un muro. I giovani di Soweto avrebbero sentito Bobby Kennedy parlare di barlumi di speranza e alla fine sarebbe stato messo al bando il flagello dell’apartheid. I giovani in Birmania sono andati in prigione, piuttosto che sottostare al governo dei militari. Dalle strade di Tunisi a Maidan in Ucraina, questa generazione di giovani può trarre forza da questo luogo, dove gente senza potere potè cambiare la più grande superpotenza del mondo, e spingere i loro leader ad ampliare i confini della libertà.

Hanno visto quell’idea diventare realtà a Selma, Alabama. L’hanno vista diventare realtà in America.
In seguito a campagne così, fu approvato il Voting Rights Act . Barriere politiche, economiche, sociali sono state buttate giù, e il cambiamento che questi uomini e donne hanno prodotto è visibile qui oggi nella presenza di africano-americani che guidano consigli d’amministrazione, che siedono in parlamento, che occupano cariche elettive dai piccoli centri alle grandi città; dal Congressional Black Caucus allo Studio ovale. I latinos sono passati attraverso quelle porte. Gli asiatico-americani, i gay americani, e gli americani con disabilità sono passati attraverso quelle porte. I loro sforzi hanno dato a tutto il Sud la possibilità di rialzarsi, non riaffermando il passato, ma trascendendo il passato.
A causa di quello che hanno fatto loro, le porte delle opportunità si sono aperte non solo per gli africano-americani, ma per ogni americano. Le donne hanno marciato attraverso quelle porte.

Che cosa gloriosa, avrebbe detto King.
Che debito solenne abbiamo con lui.
Il che ci porta a chiederci: come potremo ripagare questo debito?
In primo luogo, dobbiamo riconoscere che non basta la commemorazione di un giorno, non importa quanto speciale. Se Selma ci ha insegnato qualcosa, è che il nostro lavoro non è mai compiuto – l’esperimento americano di auto-governo dà da fare e dà uno scopo a ogni generazione.

Selma c’insegna, anche, che l’azione richiede che ci liberiamo del nostro cinismo. Perché quando si vuole il perseguimento della giustizia, non possiamo permetterci né compiacimento, né disperazione.
Proprio questa settimana, mi è stato chiesto se pensassi se il rapporto del Dipartimento di giustizia su Ferguson dimostri che, rispetto alla razza, poco è cambiato in questo Paese. Capisco la domanda, dal momento che la “narrazione” del rapporto è tristemente familiare. Esso evoca la forma di abuso e di disprezzo per i cittadini che diede origine al movimento dei diritti civili. Ma respingo l’idea che nulla sia cambiato. Quel che è successo a Ferguson può anche non essere un fatto isolato, ma non è più endemico, o consentito dalla legge e dal costume; e prima del movimento dei diritti civili, lo era, eccome.

Faremmo un cattivo servizio alla causa della giustizia lasciando intendere che pregiudizi e discriminazione siano immutabili, o che la divisione razziale sia inerente all’America. Se pensate che nulla sia cambiato negli ultimi cinquant’anni, chiedete a qualcuno che visse nella Selma o nella Chicago o nella Los Angeles degli anni Cinquanta. Chiedi all’amministratore delegato donna che una volta sarebbe stata assegnata allo staff di segreteria se nulla è cambiato. Chiedi al tuo amico gay, se sia più facile esserlo a viso aperto ed esserne orgogliosi nell’America d’oggi di quanto non fosse trent’anni fa. Negare questo progresso – il nostro progresso – sarebbe derubare noi stessi del nostro agire; della nostra responsabilità di fare tutto il possibile per rendere l’America migliore.

Certo, l’errore più comune è quello di far intendere che il razzismo sia stato tolto di mezzo, che il lavoro che portò uomini e donne a Selma sia stato completato, e che qualsiasi siano le tensioni razziali che restano esse siano una conseguenza di coloro che cercano di giocare la “carta della razza” per i loro scopi. Non abbiamo bisogno del rapporto su Ferguson per sapere che non è vero. Abbiamo solo bisogno di aprire gli occhi, e le orecchie, e il cuore, sapere che la storia razziale di questa nazione getta ancora la sua lunga ombra su di noi. Sappiamo che la marcia non è ancora finita, la corsa non è ancora vinta, e che il raggiungimento di tale meta benedetta dove si è giudicati in base al contenuto del nostro carattere, richiede che lo si ammetta.

“Siamo in grado di sopportare un grande peso”, ha scritto James Baldwin , “una volta che scopriamo che quel peso è realtà e arriviamo dove la realtà è.”

Questo è un lavoro per tutti gli americani, non solo per alcuni. Non solo per i bianchi. Non solo per i neri. Se vogliamo onorare il coraggio di coloro che marciarono quel giorno, allora tutti noi siamo chiamati a far propria la loro immaginazione morale. Tutti noi avremo bisogno di sentire, come fecero loro, l’urgenza appassionata dell’adesso. Tutti noi abbiamo bisogno di riconoscere, come fecero loro, che il cambiamento dipende dalle nostre azioni, dai nostri atteggiamenti, dalle cose che insegniamo ai nostri figli. E se facciamo questo sforzo, non importa quanto difficile possa sembrare, le leggi possono essere approvate, e le coscienze possono essere smosse, e si può costruire il consenso.

Con un simile impegno, possiamo far sì che il nostro sistema di giustizia penale serva tutti e non solo alcuni. Insieme, saremo in grado di elevare il livello di fiducia reciproca su cui si basa l’azione di polizia – l’idea che gli agenti di polizia sono membri delle comunità per proteggere le quali rischiano la vita, e i cittadini di Ferguson, New York e Cleveland semplicemente vogliono la stessa cosa per la quale i giovani marciarono qui – la protezione della legge.

Insieme, saremo in grado di affrontare la condanna ingiusta, le carceri sovraffollate, e le circostanze asfittiche che rubano a troppi ragazzi la possibilità di diventare uomini, e rubano alla nazione troppi uomini che potrebbero essere bravi padri, lavoratori, vicini di casa.

Sforzandoci saremo in grado di combattere la povertà e i blocchi che ostruiscono i percorsi di opportunità. Gli americani non accettano il biglietto gratis per chiunque, né crediamo che i risultati siano tutti uguali. Ma ci aspettiamo pari opportunità, e se lo diciamo sul serio, se siamo disposti a sacrificarci per questo, possiamo fare in modo che ogni bambino riceva una formazione adeguata a questo nuovo secolo, che espanda l’immaginazione e faccia alzare gli occhi e dia loro le necessarie competenze. Possiamo fare in modo che ogni persona disposta a lavorare abbia la dignità di un lavoro, e un salario equo, abbia voce in capitolo, e pioli più robusti sulla scala che porta su alla classe media.

E sforzandoci ancora, saremo in grado di proteggere le fondamenta della nostra democrazia per la quale tanti marciarono attraverso questo ponte – ed è il diritto di voto. In questo momento, nel 2015, cinquant’anni dopo Selma, ci sono leggi in tutto il paese fatte apposta per rendere più difficile per la gente andare a votare. Mentre parliamo, altre leggi così vengono proposte. Nel frattempo, il Voting Rights Act, il culmine di tanto sangue e sudore e lacrime, il prodotto di tanto sacrificio di fronte alla violenza sfrenata, si trova indebolito, il suo futuro è vittima di rancore partigiano.

Come può essere? Il Voting Rights Act è stato uno dei massimi successi della nostra democrazia, il risultato dello sforzo congiunto repubblicano e democratico. Il presidente Reagan ne firmò il rinnovo, quando era in carica. Il presidente Bush firmò il suo rinnovo, quando era in carica. Un centinaio di membri del Congresso sono venuti qui oggi per onorare le persone che erano disposte a morire per il diritto che tutela. Se vogliamo onorare questa giornata, fate sì che questi cento parlamentari tornino a Washington, e ne riuniscano altri quattrocento, e insieme, s’impegnino a farne la loro missione il ripristino della legge quest’anno.

Naturalmente, la nostra democrazia non è compito del solo Congresso, o solo dei tribunali, o solo del Presidente. Se ogni nuova legge di soppressione degli elettori fosse annullata oggi, avremmo ancora uno dei tassi più bassi di voto tra i popoli liberi. Cinquant’anni fa, la registrazione per votare qui a Selma e in gran parte del Sud era come indovinare il numero di giuggiole in un barattolo o le bolle di una saponetta. Significava rischiare la dignità, e, a volte, la vita. Qual è la nostra scusa oggi per non votare? Come facciamo con tanta disinvoltura a scartare il diritto per il quale tanti hanno combattuto? Come facciamo a dar via del tutto il nostro potere, la nostra voce, nel plasmare il futuro dell’America?

Cari amici che marciaste allora, quanto è cambiato in cinquant’anni. Abbiamo sopportato la guerra, e costruito la pace. Abbiamo visto meraviglie tecnologiche che toccano ogni aspetto della nostra vita, e diamo per scontate comodità che i nostri genitori non avrebbero neppure potuto immaginare. Ma ciò che non è cambiato è l’imperativo della cittadinanza, quella volontà di un diacono di 26 anni, o di un ministro della chiesa Unitaria, o di una giovane madre di cinque figli, da decidere di amare talmente questo paese da rischiare tutto per realizzare la sua promessa.

Questo è ciò che significa amare l’America. Questo è ciò che significa credere nell’America. Questo è ciò che significa quando diciamo che l’America è eccezionale.
Perché siamo nati dal cambiamento. Abbiamo rotto le vecchie aristocrazie, dichiarandoci titolari di diritti, non per discendenza di sangue, ma perché dotati dal Creatore di certi diritti inalienabili. Tuteliamo i nostri diritti e responsabilità attraverso un sistema di autogoverno, del, dal e per il popolo. Ecco perché discutiamo e ci confrontiamo con tanta passione e convinzione, perché sappiamo che i nostri sforzi contano. Sappiamo che l’America è ciò che facciamo di essa.

Siamo Lewis, Clark e Sacajawea – pionieri che sfidarono l’ignoto, e sarebbero stati seguiti da contadini e minatori, imprenditori e imbonitori. Questo è il nostro spirito.
Siamo Sojourner Truth e Fannie Lou Hamer, donne che potevano fare tanto quanto un qualsiasi uomo e anche di più; e siamo Susan B. Anthony, che scosse il sistema fino a quando la legge non riflettè quella verità. Questo è il nostro carattere.
Siamo gli immigrati arrivati clandestinamente in nave per raggiungere questi lidi, siamo le masse di popolo che bramano di respirare liberamente – i sopravvissuti all’Olocausto, i disertori sovietici, i Lost Boys del Sudan. Siamo i disperati pieni di speranza che attraversano il Rio Grande, perché vogliono che i loro figli conoscano una vita migliore. Ecco come siamo arrivati a essere quel che siamo.
Siamo gli schiavi che costruirono la Casa Bianca e l’economia del Sud. Siamo gli stallieri dei ranch e i cowboy che aprirono la strada al West, gli innumerevoli operai che posero le rotaie ed eressero i grattacieli, e che si organizzarono per i diritti dei lavoratori.
Siamo gli imberbi soldati che combatterono per liberare un continente, e noi siamo i Tuskeegee Airmen, siamo i decrittatori Navajo, e i nippo-americani che combatterono per questo paese anche se la propria libertà fu loro negata. Siamo i vigili del fuoco accorsi in quegli edifici l’11 settembre, e i volontari che si sono arruolati per combattere in Afghanistan e in Iraq.

Noi siamo i gay americani, il loro sangue scorreva per le strade di San Francisco e di New York, così come il sangue scorreva giù per questo ponte.
Siamo i narratori, gli scrittori, i poeti e gli artisti che aborrono l’ingiustizia, e disprezzano l’ipocrisia, danno voce a chi non ha voce, e raccontano verità che devono essere raccontate.
Siamo gli inventori del gospel e del jazz e del blues, del bluegrass e della country, dell’ hip-hop e del rock ‘n’ roll, i nostri stessi suoni con tutto il dolce dolore e la gioia sfrenata della libertà.
Siamo Jackie Robinson, quanto disprezzo nei suoi confronti e palle [baseball] scagliate dritte contro la sua testa, eppure quante home rubate nella World Series.

Noi siamo il popolo che, come ha scritto Langston Hughes, “costruisce i nostri templi per domani, forti come sappiamo.”
Noi siamo il popolo che, come ha scritto Emerson, “per il bene della verità e dell’onore sta con la schiena dritta e soffre a lungo”, siamo gente che “non si stanca mai, finché possiamo vedere abbastanza lontano.”

Ecco che cos’è l’America. Non è uno stock di foto, non è storia nebulizzata o deboli tentativi di definire alcuni di noi come più americani di altri. Rispettiamo il passato, ma non ci struggiamo per il passato. Non temiamo il futuro; vogliamo afferrarlo. L’America non è un qualcosa di fragile; siamo grandi, nelle parole di Whitman, conteniamo moltitudini. Siamo vivaci, un popolo variegato e pieno di energia, perennemente giovane nello spirito. Ecco perché qualcuno come John Lewis all’età matura di 25 anni poteva guidare una possente marcia.

Ed è quello che i giovani qui oggi e in ascolto in tutto il paese devono prendere da questo giorno. Tu sei l’America. Non vincolato da abitudini e convenzioni. Libero dall’impaccio di quel che è, e pronto a cogliere ciò che dovrebbe essere. Perché ovunque in questo paese, ci sono i primi passi da intraprendere, e nuovi percorsi da battere, e ponti da attraversare. E sei tu, giovane e senza paura nel cuore, la generazione più plurale e istruita nella nostra storia, che la nazione è in attesa di seguire.

Perché Selma ci mostra che l’America non è il progetto di una sola persona.
Perché la parola più potente nella nostra democrazia è la parola, “we”, “noi”. We The People. We Shall Overcome. Yes We Can. Non è proprietà di nessuno. Appartiene a tutti. Oh, che glorioso compito ci è dato, cercare continuamente di migliorare questa grande nostra nazione.
A cinquant’anni dal Bloody Sunday (Domenica di Sangue), la nostra marcia non è ancora finita. Ma ci siamo vicini. A 239 anni dalla fondazione di questa nazione, la nostra unione non è ancora perfetta. Ma ci siamo vicini. Il nostro lavoro è più facile, perché qualcuno ci ha già portato oltre quel primo miglio. Qualcuno ci ha già fatto passare attraverso quel ponte. Quando la strada si farà troppo dura, quando la torcia che ci è stata passata sembrerà troppo pesante, ci ricorderemo di questi primi viaggiatori, trarremo forza dal loro esempio, e ci atterremo saldamente alle parole del profeta Isaia:
“Quelli che sperano nell’Eterno acquistan nuove forze, s’alzano a volo come aquile; corrono e non si stancano, camminano e non s’affaticano”

Onoriamo coloro che hanno camminato cosicché noi potessimo correre. Dobbiamo correre così i nostri figli voleranno. Non ci stancheremo. Perché crediamo nel potere di un Dio eccelso, e crediamo nella sacra promessa di questo Paese.
Possa Egli benedire quei guerrieri della giustizia non più con noi, e benedica gli Stati Uniti d’America.

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