Terme, camping e casinò lo spreco delle Spa pubbliche ci costa 13 miliardi di euro

marzo 30, 2014
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L’impero delle municipalizzate distribuisce appalti e stipendi. Settemila le società in rosso. Che ora entrano nel mirino del governo

Una galassia che, come sospinta da un big bang, non smette mai di espandersi. Le Spa di Stato, un mondo a sé, che vive con i soldi di tutti: 12,8 miliardi di euro. Fatto di anomalie, contraddizioni, paradossi. Scandali. Dove la politica si intreccia con l’affarismo. Un settore che va controcorrente, mischiando profitti e assistenzialismo. La galassia delle oltre 7mila partecipate dagli enti pubblici (Regioni, Comuni, Province, Comunità montane) in aggregato è una megaholding da circa 43 miliardi di fatturato, 300 mila dipendenti, oltre 115 miliardi di investimenti programmati. E una pletora di poltrone: più di 30 mila, per le sole aziende partecipate dai Comuni. Ci sono quasi 16mila amministratori (ogni azienda ne ha in media 4,3), circa 12mila componenti degli organi di controllo. Poi quasi 3mila persone con incarichi diversi, da direttori generali in giù. Nell’insieme, è una città di medie dimensioni.

Solo a Roma, tra il 2008 e il 2010, nelle aziende che fanno capo al Campidoglio il personale è cresciuto di almeno 3.500 unità. Un quarto del ricavo totale delle imprese made in Italy viene dal pubblico, ma non porta quasi nessun guadagno.
Le terme Salsomaggiore hanno chiuso il bilancio in perdita 3,2 milioni. Genova gestisce i Bagni Marina che in un triennio perdono 320 mila euro.

E’ un ceto costruito in prevalenza sulla base della fedeltà politica, perché muove voti: non meno di 120 mila considerando le famiglie dei dirigenti delle partecipate pubbliche.

Un numero sufficiente di preferenze da far entrare chiunque in un consiglio o in una giunta locale o, nell’aggregato, in teoria anche per vincere il premio di maggioranza alle politiche. Secondo le stime Istat, limitando il campo alle 4.500 imprese sopra i 100 dipendenti e dove la mano pubblica è sopra al 50% del capitale, l’impatto è potente: pesano per un quinto dei dipendenti e un quarto degli utili di tutte le imprese in Italia. Almeno in questo, siamo un caso di “socialismo” (quasi) realizzato.

LA CITTÀ DELLE PARTECIPATE
O almeno in corso di edificazione: solo a Roma, tra il 2008 e il 2010, nelle società che fanno capo al Campidoglio il personale è cresciuto di almeno 3.500 unità. “Alla fine del 2010 – è scritto nel Rapporto Irpa sul capitalismo municipale – le tre principali aziende del Comune di Roma, Atac, Ama e Acea totalizzavano 27.479 posti di lavoro, 2.637 in più rispetto allo stesso periodo di due anni prima (con una crescita di circa il 10%) a fronte di performance spesso scadenti e di ingenti situazioni debitorie”. Ecco, così la degenerazione del capitalismo municipale: imprese senza concorrenza (e senza che l’Antitrust eccepisca, pur avendone i poteri), assunzioni clientelari, servizi inadeguati, tariffe troppo basse rispetto ai costi. Superstipendi per i dirigenti. La Uil e il centro ricerche Eures calcolano in 28 milioni di euro il costo degli organi di vertice e dei dirigenti delle società capitoline, dove spiccano i 5,8 milioni dell’Acea e soprattutto gli oltre 13 milioni di euro dell’Atac, azienda del trasporto locale travolta dallo scandalo di Parentopoli ai tempi della giunta di Gianni Alemanno, e con un deficit nel 2012 di 156 milioni di euro.

Le imprese partecipate italiane erano 6470 nel 2009, 7340 nel 2011 (secondo il Tesoro) e alle ultime rilevazioni di Confindustria risultano 7.700. Nel 2011 viaggiavano con una perdita di circa 800 milioni, se si aggregano le attività in profitto e quelle in rosso. E mentre in certi casi di pubblica utilità registrare una perdita è persino normale, altri risultano incomprensibili.

Con il decreto del 24 dicembre, appena uscito in Gazzetta Ufficiale, il ministero dell’Economia ha fissato i limiti dei compensi per i manager di Stato delle 200 società non quotate che il Tesoro controlla. L’obiettivo del governo adesso è estendere il “tetto” alla marea delle oltre 7000 società partecipate da altri enti pubblici: appunto, Regioni, Comuni, Provincie, Comunità montane. È lì che matura circa un quarto del fatturato totale delle imprese made in Italy, oltre ad alcune dei mestieri (e dei buchi di bilancio) più impropri per un’autorità pubblica.

LO STATO TIENE BANCO MA PERDE
Per dirne una, Sheldon Adelson e Stanley Ho decisamente non abitano qua. I grandi tycoon di Las Vegas e di Macao non faranno molti sforzi per piacere al prossimo, ma su un punto si può contare su di loro: sanno far funzionare un casinò. Sarebbe dunque il caso di mandare qualche boiardo a lezione da loro, perché l’Italia ormai ha strappato un nuovo primato: è l’unico biscazziere del mondo che tiene il banco, ma riesce a perdere come se avesse truccato la roulette contro se stesso. Qualche esempio? Nel 2011 il Casinò municipale Campione d’Italia, partecipato dal comune di Como, è riuscito a centrare una perdita da 40 milioni di euro (e a premiare il suo top manager Carlo Pagan con 311.658,53 euro lordi). Il Casinò di Venezia, potenziale miniera d’oro in mano al comune, ha centrato un profondo rosso di 16 milioni di euro nel 2011, arrivando a una situazione di patrimonio netto negativo da 681 mila euro; poi di nuovo ha perso 14 milioni di euro nel 2012, e il suo direttore generale Vittorio Ravà ha incassato 250 mila euro lordi (più un patto di non concorrenza triennale quantificato in giornate a disposizione retribuite). Forse ha portato sfortuna la definizione sotto cui il casinò sulla Laguna ha scelto di iscriversi al registro delle imprese pubbliche: va sotto la voce “Attività di supporto per le funzioni d’ufficio”. Ma la ragione sociale non c’entra, perché anche la Casinò di Venezia Meeting & Dining (“ristorazione”) nel 2011 ha perso 659 mila euro. Per non parlare della Casinò Spa di Imperia, altra controllata dell’ente locale che gestisce la casa da gioco di Sanremo, che ha perso 2,3 milioni di euro.

Sheldon Adelson e Stanley Ho licenzierebbero i manager, fossimo a Las Vegas o a Macao. Qui invece si accorgerebbero magari che quei 311.658,11 euro che incassa Pagan sono per l’appunto il tetto fissato dalla legge per il 2014 per i dirigenti della pubblica amministrazione, esattamente pari alla retribuzione del primo presidente della Corte di Cassazione. È il meccanismo del galleggiamento di antica memoria, che rende lo stipendio una variabile indipendente dai risultati: perché qui a fare il mestiere di biscazziere è lo Stato, anzi gli enti locali che ne svolgono del resto molti altri con pari incompetenza. Che dire per esempio del Comune di Genova, gestore dei Bagni Marina Genovese che in un triennio hanno sommato più di 320 mila euro di perdite? Per non parlare di Jesolo, che si occupa di un camping.

SE LO STATO FA I FANGHI
È mai possibile per esempio versare in perdita cronica disponendo di un monopolio naturale che garantisce una rendita di durata illimitata? Sì, se siete uno Stato che fa i bagni termali. Avete le acque sulfuree dell’Amiata o di Montecatini, ma neanche quelle bastano a una gestione appena in equilibrio. Oggi in Italia non meno di ventitré società di bagni termali sono controllate da enti locali. Le Terme di Montecatini, per dirne una, offrono a caro prezzo “fangoterapia”, “viso al fango termale exclusive” e vari altri trattamenti, autodefinendosi surrealisticamente nel registro del Tesoro un’attività pubblica di “commercio al dettaglio”. Eppure sono in perdita di 1,6 milioni sul 2011. Sempre meglio di Salsomaggiore (rosso di 3,2 milioni), delle Terme di Agnano (meno 3,1 milioni) o dell’impresa pubblica pratese “Società Terme e Benessere” che ha chiuso il bilancio 2011 sotto di 5,7 milioni. In confronto i panettoni di Stato della prima Repubblica erano una frontiera avanzata dell’innovazione.

Se davvero il governo vuole ridurre la spesa, deve passare di qui. Il Centro studi della Confindustria calcola che, azzerando la partecipazione nelle imprese che non svolgono servizi pubblici, il risparmio per lo Stato sarebbe di 12,8 miliardi: più di quanto occorre per lo sgravio di 80 euro nelle buste paga dei redditi più bassi. Insomma, un’altra mission impossible del nuovo esecutivo. E’ un ceto costruito in prevalenza sulla base della fedeltà politica, perché muove voti: non meno di 120 mila considerando le famiglie dei dirigenti delle partecipate pubbliche. Un numero sufficiente di preferenze da far entrare chiunque in un consiglio o in una giunta locale o, nell’aggregato, in teoria anche per vincere il premio di maggioranza alle politiche. Secondo le stime Istat, limitando il campo alle 4.500 imprese sopra i 100 dipendenti e dove la mano pubblica è sopra al 50% del capitale, l’impatto è potente: pesano per un quinto dei dipendenti e un quarto degli utili di tutte le imprese in Italia. Almeno in questo, siamo un caso di “socialismo” (quasi) realizzato.

di FEDERICO FUBINI e ROBERTO MANIA

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