Altro che Salva-Roma, la capitale è al dissesto

gennaio 2, 2014
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Ormai hanno imparato che basta dare un nome ad una legge e questo ne orienta la lettura da parte degli addetti ai lavori, che sembrano non fare più alcuno sforzo per capirne – e spiegarne – il contenuto, limitandosi pigramente a scivolare sulla suggestione della formula nominalistica entro cui la norma è racchiusa.

È la sorte subita dal decreto cosiddetto “salva-Roma”. Così enunciata sembrerebbe che la volontà del governo fosse quella di salvare la Capitale, da cosa? Da chi? In realtà l’obiettivo, in parte raggiunto, era più semplicemente quello di consentire alla giunta in carica di chiudere il bilancio. Quindi si sarebbe dovuto semmai chiamare “salva-bilancio” o “salva-giunta”. Ma nessuno (almeno per quanto mi risulta) ha veramente spiegato quali ne fossero i contenuti e che cosa ne è rimasto. Come è noto il governo è stato costretto dal Capo dello Stato a ritirare il decreto alla vigilia della sua conversione in legge, perché era stato inzeppato di emendamenti che nulla avevano a vedere con Roma e che ne avevano fatto un provvedimento omnibus.

Almeno una parte, quella più urgente, è stata recuperata nel parallelo decreto “milleproroghe”, altra fantasiosa invenzione del paroliere parlamentare italiano. Parrebbe che lo Stato abbia elargito alla città eterna un regalo di 400 milioni di euro, metà del buco di bilancio. Niente di tutto questo. Si tratta soltanto della possibilità consentita al Campidoglio di spostare una partita di più di 400 milioni sul debito gestito da un commissario (accrescendo la cifra, ormai da considerare storica, di 12 miliardi) così da poter far quadrare i conti nel documento ufficiale.

Provo a spiegarlo meglio. Per la prima volta nella sua storia, il comune di Roma approva il bilancio “preventivo” nella seconda decade del mese di dicembre dell’anno di riferimento. Cioè a dire che si preventiva una spesa già del tutto avvenuta, questo grazie a una serie di proroghe di legge, deroghe e rinvii prefettizi. Solo che a quei conti mancavano 800 milioni, ossia nel 2013 sono stati spesi 800 milioni in più rispetto alle entrate, e questo la legge sulla finanza pubblica lo vieta. Allora si sono dovuti utilizzare alcuni espedienti contabili: far figurare maggiori entrate dovute ad aumenti tariffari, che non potranno produrre i proprio effetti perché non ce ne è il tempo materiale, alcuni tagli figurativi, insomma strumenti abituali anche se resi meno credibili perché adottati alla fine dell’esercizio. Ma stiracchiando la coperta si arrivava a metà del fabbisogno, così il comune ha ottenuto la facoltà, come si è detto, di spostare una consistente parte del debito sulla gestione commissariale, cioè non è entrato un solo euro in più nelle casse comunali e l’unico risultato sarà che decine di creditori (spesso piccole imprese) vedranno sfumare ogni speranza di veder onorati i propri diritti.

Per giunta questo artificio contabile è stato adottato facendo fede su un decreto non ancora convertito e quindi ad alto rischio: infatti è stato ritirato e, se non fosse stato recuperato in altro decreto, il bilancio sarebbe saltato. Sia detto per inciso, anche il secondo decreto, pur avendo efficacia nell’immediato, non sarà blindato finché non avverrà la sua conversione.

Però il salva-Roma conteneva anche un’altra disposizione, che ha subito un iter contrastato, non è stata ancora recuperata e non è detto che lo sarà. Si tratta della possibilità concessa alla Capitale, in deroga alla normativa generale, di alzare il tetto per l’Irpef dallo 0,9 all’1,2% per il 2014. Dalle previsioni per l’anno che sta iniziando risulta infatti che il deficit per il bilancio capitolino sarà non più di 800 ma di 1200 milioni di euro e, insieme ad un’altra serie di tagli di spesa e aumenti tariffari, soltanto un consistente aumento dell’imposta sulle persone fisiche consentirà la chiusura del documento di programmazione.

Cosa succederebbe se queste circostanze non si verificassero? Se a Roma non venisse concessa questa licenza o se il citato decreto non fosse convertito? A questo punto occorre fare chiarezza su un’altra inesattenza ampiamente circolata sulla stampa: si è parlato di un possibile default, di un fallimento del comune. Una stupidaggine, i comuni non possono fallire, sono ovviamente obbligati a proseguire nella propria attività, a erogare i servizi essenziali ai cittadini. Quello che succede agli enti locali insolventi è l’obbligo della dichiarazione di “dissesto” da parte dei rispettivi consigli. Sono mediamente una ventina ogni anno i comuni che finiscono per trovarsi in questa situazione. Cosa comporta il dissesto? Comporta che sindaco, giunta e consiglio restano in carica ma non hanno praticamente margini di intervento fino al risanamento: sono bloccati tutti gli investimenti, non si possono contrarre mutui e i servizi debbono avere un pareggio effettivo, da raggiungere attraverso l’aumento delle tariffe.

Diciamoci dunque la verità: la città di Roma è sostanzialmente in dissesto ormai da molti anni, soltanto che alla sua classe dirigente è stato consentito, per evidenti motivi di opportunità politica, di mascherare in vario modo il problema. Prima nascondendo la polvere sotto il tappeto, fin quando la mole del debito è divenuta così eclatante (i 12 miliardi di cui si è a lungo parlato) che non poteva più essere occultata e, a quel punto, si è ricorsi all’espediente del consolidamento del debito e al suo commissariamento: in altre parole si è tolta quella cifra (pari al triplo dell’intero bilancio) dalla contabilità ordinaria. Soltanto che, nonostante tagli nei servizi e aumenti di imposte, la struttura del bilancio di Roma continua a produrre un deficit di circa un miliardo ogni anno.

E i romani sono già, di gran lunga, i più tartassati tra i contribuenti italiani: ogni romano paga 1.040 euro l’anno per Irpef, Imu e Tarsu, contro i 440 della media nazionale! Per il 2014 li aspetta un “salvataggio” che farà aumentare ulteriormente il peso di tasse e imposte.

Insomma, la città di Roma e i suoi abitanti stanno già vivendo, di fatto, una situazione da dissesto tecnico per quanto riguarda gli oneri, senza neanche avere i benefici in termini di riequilibrio che deriverebbero dalla ufficializzazione di questa situazione.

Certo non si può addossare la responsabilità di questo dramma ad una sola amministrazione né, tantomeno, agli ultimi arrivati, e bisogna pur riconoscere che la Capitale paga un pegno non riconosciuto in termini servizi resi alle istituzioni nazionali e internazionali, nonché alla gestione di un patrimonio storico, che le altre città italiane non hanno.

Però non si può neanche continuare a ignorare che le valvole sono saltate e che soltanto un intervento straordinario e trasparente può, in un tempo neanche troppo breve, riallineare i conti della ragioneria capitolina, smettendola di fare il gioco delle tre carte della finanza creativa e della fantasia nominalistica. Trucchi che possono salvare qualche maggioranza ma che hanno già abbondantemente dannato la città.

Umberto Croppi

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One Response to Altro che Salva-Roma, la capitale è al dissesto

  1. pino on gennaio 6, 2014 at 2:57 pm

    caro Umberto e dopo, vista la chiarezza con cui hai esposto il problema, si puo’ avviare il giro di boa? Rientro stasera e ci sentiamo quanto prima

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